1944: IL CINEMA DEL REALE

di Flavia Balti

Siamo nel 1944: tutto è stato distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale ed è il  momento di ricostruire. Noi sappiamo che nel 1944 il cinema è un’arte, per così dire,  ancora giovane, probabilmente ancora in fase di nascita o comunque ancora si trova  in un momento in cui cerca la propria autonomia, la propria indipendenza.  

Diciamo che è un’arte giovane perché la data che, canonicamente, vede la nascita  del cinema è il 1895, quando i fratelli Lumiére, pionieri del cinematografo, fecero la  prima proiezione a pagamento al Grand Cafè di Parigi. Naturalmente questa è solo  una data canonica perché questo evento più che punto di partenza è il punto di  arrivo di tutta una serie di invenzioni e brevetti che furono messi a punto dai diversi  pionieri del cinema che erano sparsi qua e là in Europa e nel mondo. E’ però  sicuramente da questo momento in poi che inizia quel processo di  istituzionalizzazione del cinema, un percorso lungo e complesso che ancora oggi  vediamo in atto, perché ancora oggi assistiamo all’evoluzione del cinema, nella sua  pluralità di manifestazioni, forme, modi di comunicare, rappresentare etc. 

Noi sappiamo che nel 1944, in Italia, vengono prodotti quei primi film che faranno  parte di quel filone che sarà poi chiamato Neorealismo. Anche in questo caso, non  possiamo decretare una data precisa in cui questa corrente cinematografica ha  inizio, ma alcuni film sono sicuramente considerati manifesto del Neorealismo, tra  questi: Ossessione, del 1943, di Luchino Visconti, regista pioniere del nuovo  movimento; e allo stesso modo Roma Città Aperta (1945), di Roberto Rossellini, che  si da a vedere come manifesto proprio dell’estetica neorealista; Ladri di Biciclette di  Vittorio De Sica, altro regista cardine di questo movimento cinematografico. In  queste prime pellicole troviamo quelli che saranno i tratti caratterizzanti  dell’estetica neorealista e che daranno il via al cinema moderno, non solo in Italia,  ma anche all’estero: il Neorealismo fa parte ed è promotore, infatti, di una nuova  spinta, una nuova “onda” come veniva detto, che caratterizzò gli anni Cinquanta e  Sessanta e che decreterà la definitiva autonomia del cinema dalle altre arti. Il  cinema comincerà ad essere teorizzato, basti pensare ai famosi Cahiers du cinéma di  Bazin o da noi a Cesare Zavattini, che oltre ad essere sceneggiatore per De Sica  (anche in Umberto D), fu teorico del Neorealismo. In Francia avremo i registi della  Nouvelle Vague (nuova “onda”, appunto) come Godard e Truffaut, ma non solo, il 

New American Cinema, la Nova Vlna etc. Un moto artistico, rivoluzionario che  cambiò per sempre il modo di fare cinema.  

I tratti comuni del Neorealismo, quelli ricorrenti e quelli che vengono  immediatamente associati a questa corrente, li conosciamo, sono: 

– L’antispettacolarità: se prendiamo come riferimento, ad esempio, la trilogia a  tema bellico di Rossellini (Roma città aperta, Germania anno zero, Paisà)  scorgiamo subito questo elemento, in quanto troviamo un realismo  improntato sull’immagine-fatto, vale a dire che lo sguardo morale della  cinepresa permette la scoperta del mondo nel momento in cui i fatti vengono  raccontati. Il cinema allora si da come strumento di registrazione di e  riproduzione di una realtà autentica e non mediata.  

– Uso di attori non professionisti, accanto poi ai professionisti (se prendiamo,  ancora, ad esempio Roma città aperta troviamo attori presi dalla strada, ma  anche attori di fama internazionale come Anna Magnani e Aldo Fabrizi) – L’improvvisazione; 

– La mancanza di scenografia, il set è l’Italia del Secondo Dopoguerra. Questi  film, al pari di un archivio fotografico storico, hanno valore documentale; – La rottura con gli schemi del passato e hollywoodiani; 

– Autorialità; 

E’ interessante notare come le caratteristiche del cinema Neorealista, che qui  abbiamo brevemente riassunto, siano sì, come sempre, il prodotto di dinamiche di  scambio costanti, di altre intuizioni passate di rottura (basti pensare alle  avanguardie, a quella sovietica, a Dziga Vertov e alla teoria del cine-occhio), ma  questo tipo di cinema, in realtà trova le sue origini – a partire già dal primo dopoguerra – in Italia sì, ma più precisamente a Napoli.  

All’inizio degli anni Dieci abbiamo a Napoli i primi produttori cinematografici (tra  questi Roberto Troncone, che produsse il primissimo film napoletano nel 1909  “Ritorno delle carrozze da Montevergine” e il documentario “Eruzione del Vesuvio”  che ebbe successo anche in America). La produzione del cinema napoletano di  questo periodo fu imperniata sui soliti scenari naturali del golfo e del folklore e si  distinse dal resto della produzione italiana per la sua vicinanza al contesto locale,  tanto da avere, in seguito, problemi con il regime fascista. Sono i napoletani i primi a  considerare la realtà come qualcosa da registrare così com’è, da mostrare al grande  pubblico senza gli artifici del montaggio o la presenza di grandi divi (chiaramente 

questo dato ha motivazioni che risiedono anche nella minore disponibilità  economica dei produttori del meridione rispetto alle grandi case cinematografiche che andavano nascendo in Europa e all’estero) 

I cineasti a furia di girare per i cortili di Napoli, incorsero nella censura fascista ma,  trasferiti a Roma, vi portarono i germi del Neorealismo”,  

si dice in “Elvira Notari, pioniera del cinema napoletano”, libro di Enza Troianelli. Chi  era Elvira Notari? Una delle più caratteristiche industrie cinematografiche  napoletane fu la Doria Film, fondata dai due coniugi Nicola ed Elvira Notari; all’interno di questa Elvira Notari fu il punto di forza: donna colta e decisa, ella volle  rappresentare nei suoi film a tutti i costi la verità: “Il suo interesse principale verte  sulle donne che cercano di sfuggire alla loro condizione di origine…nonostante le sue  eroine siano tutte condannate ad una fine ignobile, le tratta con una tale ambiguità  da lasciare intravedere segni di sorellanza…gli uomini non sono considerati essere  autonomi, ma oscillano continuamente tra la madre e l’amante”. Durante la Prima  Guerra Mondiale la Dora Film produsse film patriottici e documentari di successo  come Preparativi guerreschi a Napoli(1911), Eroismo di un aviatore a Tripoli(1912),  Addio mia bella addio l’armata se ne va; successivamente una serie di film ispirati a  fatti realmente accaduti e alla tradizione letteraria e musicale, per esempio Medea  di Portamedina(1919) dal romanzo di Francesco Mastriani, ‘A legge, dalla canzone di  E. A. Mario e Pacifico Vento e altri. Proprio per questa loro ambientazione  naturalistica i film della Doria riscossero un notevole successo di pubblico in America  dove gli emigranti facevano la fila per poter assistere agli spettacoli. Naturalmente  l’avvento del fascismo fu la causa del fallimento della Dora Film, ma più in generale  della cinematografia napoletana, in quei primi anni così fervente. Lo scenario sociale  e culturale della Napoli di quegli anni e l’uso del dialetto erano elementi che non  collimavano con il disegno di rinascita nazionale del regime fascista, che nel 1928  vietò definitivamente la produzione dei film dialettali. Inoltre, l’introduzione del  sonoro contribuì non poco alla crisi del cinema che, iniziata con la guerra, provocò la  chiusura di molti stabilimenti cinematografici, soprattutto napoletani. 

Succede però che un geniale cineasta, Roberto Amoroso, decide di far rinascere quei  canoni ideativi che il regime aveva censurato (perché definiti bassi, volgari, materia  non degna di essere rappresentata): egli ripose al centro del soggetto filmografico la  sconcertante tipologia della plebe partenopea – lo scugnizzo, il guappo, il 

camorrista, il disperato, la prostituta – tutti personaggi che già avevano dato vita alle  storiche ambientazioni del melodramma popolare del cinema muto. Secondo lui  tutto ciò che toccava la realtà di Napoli andava interpretata con l’ardore di un  Masaniello.  

Egli debuttò come operatore cinematografico nella Lux Film e riprese, durante  l’invasione nazista, scene crude della violenza che in quei mesi era all’ordine del  giorno. Fotografò anche le famose “Quattro Giornate” e fu il documentarista di uno  degli episodi di barbarie più agghiacciante: la fucilazione di un marinaio avvenuta  sulle scale dell’università, documento che consegnò alle autorità americane appena  arrivate in città. Quella pellicola gli consentì di poter disporre di pellicole vergini  senza limite e in un momento come quello era come disporre di un tesoro: aveva  finalmente gli strumenti per poter diventare produttore cinematografico.  

Nel giro di poco tempo, Amoroso realizzò intensissime istantanee di vita quotidiana,  dal profondo significato emotivo: è nel 1945, infatti, che realizza il suo primo film,  Malaspina. Acquistò i diritti di una vecchia canzone che il quel periodo era in voga e  la sceneggiò con quella tecnica che aveva appreso presso il Salone Margherita:  naturalmente Napoli fu il teatro di scena, uno sfondo fatto di lutti e miserie, violenza  disperata, di sfacelo, corruzione, ma anche lealtà e solidarietà umana. Le parti  vennero affidate a due interpreti, dialettale l’uno, soubrette l’altra; il resto degli  attori, in modo squisitamente neorealista, venne reclutato dalla strada, dai quartieri  popolari che fecero da cornice al film. La sceneggiatura raccontava una drammatica  vicenda amorosa, come lo erano tutte quelle su cui, ai tempi, si innestava la ripresa  diretta dell’ingresso dei carrarmati in città: ancora una volta vediamo come il  cinema neorealista abbraccia la sua vocazione documentarista in una sorta di  istantanea in movimento di quel momento storico. Il film venne presentato la prima  volta a maggio del 1947 in quattro cinematografi napoletani; il talento dell’autore  venne definito, per l’appunto “neorealista” dalla critica del tempo, giudizio espresso  successivamente anche da Cesare Zavattini, come abbiamo detto teorico del  neorealista e sceneggiatore.  

In generale, comunque, per quanto riguarda la presenza di Napoli come soggetto  attivo nel campo delle attività cinematografiche o come soggetto descritto in film  dell’epoca, occorre dire che questa risulta abbastanza limitata per tutta una serie di  motivi; innanzitutto bisogna considerare il fatto che Napoli, come tutto il Meridione  versava in condizioni economiche e di sviluppo estremamente precarie e 

naturalmente l’industria cinematografica non era tra le priorità della ricostruzione.  Se a questo si aggiunge da un lato la saturazione, da parte del grande pubblico, di  certi stereotipi quali quelli forniti tipicamente dalla tradizione partenopea, come  pure la fortissima concorrenza a livello, tanto di distribuzione (le pellicole americane  avevano un costo di due lire al metro) quanto di innovazione tematica, si può ben  comprendere come la cinematografia napoletana di questi anni abbia prodotto,  almeno nell’immediato secondo dopoguerra, ben poco o nulla.  

Per concludere però, vale la pena parlare di un film, La Pelle (1981), di Liliana Cavani,  che racconta proprio la Napoli di quegli anni, storia ispirata al romanzo di Curzio  Malaparte che la visse in prima persona.  

Siamo nel 1944 e siamo a Napoli. Curzio Malaparte è il Capitano del Corpo di  Liberazione Nazionale (quel che resta del Regio Esercito) e media tra gli Alleati e la  popolazione di Napoli. La realtà di quegli anni viene raccontata dalla Cavani con  estremo realismo, attraverso scene di violenza, ma anche di solidarietà, fino ad  arrivare allo stupro di un’aviatrice statunitense ad opera di alcuni commilitoni, e alla  terribile scena in cui un uomo romano, in festa, mentre i carri giungono a Roma da  Napoli, viene travolto da uno di questi. Un incidente da niente per l’animo ormai  congelato dei soldati, ma una tremenda sconfitta per il protagonista Curzio.  

A fare da sfondo a queste vicende, scene di ordinaria follia bellica: i prigionieri  tedeschi venduti a peso, carri armati smontati in pieno centro dagli scugnizzi,  quartieri dichiarati off limits ai soldati alleati, bambini dati dalle loro madri indigenti  ai soldati nordafricani per essere posseduti; la prostituzione, e, finalmente, la tragica  eruzione del Vesuvio. 

Il film, molto atteso, ebbe un esito alquanto contrastante, venendo prima descritto  in termini negativi ma riscontrando un notevole successo al botteghino.  

La regista, intervistata, disse di essere intenzionata a realizzare una rilettura  “iperrealista” del romanzo e al tempo stesso di non voler lanciare, con la violenza e  la crudezza delle sue immagini alcun messaggio antibellico o antimilitarista. Il film  venne criticato sia per quanto riguarda le sue modalità realizzative, sia per quanto  riguarda le sue finalità.  

Sta di fatto che il film, con la sua atmosfera vagamente onirica, racconta con  spietata concretezza quello che accadde quell’anno, rappresentando, seppur in un  epoca in cui si parla ormai di cinema cosiddetto post-moderno, una delle ultime 

opere di intento documentale e realista realizzate nel Novecento e di matrice  napoletana.